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La storia, le forme chimiche e le fonti di un pro-ormone da cui dipende la nostra salute.

La lunga storia della scoperta del “Fattore D”.

Come già accaduto per molte scoperte, tutto il percorso di ricerca che portò all’identificazione della Vitamina D partì dallo studio dei quadri clinici patologici secondari alla sua carenza e dalla necessità di capire come evitare e curare tutte le problematiche ad essa collegate.

La storia della vitamina D è intrecciata a quella del rachitismo, una grave condizione descritta per la prima volta da Glisson nel 1651, caratterizzata da una generale deformazione dello scheletro e da una severa debolezza muscolare. I soggetti affetti da rachitismo erano soprattutto bambini e giovani e presentavano gambe arcuate, allargamento della cassa toracica, incurvamento della colonna vertebrale, gravi difficoltà nel movimento e salute precaria.

Già nel II secolo a.C. era stata documentata questa condizione, ma solo con la rivoluzione industriale questo quadro divenne così rilevante da costituire una vera emergenza sanitaria. Agli inizi del 1800 medici e scienziati constatarono che il rachitismo era più diffuso in città rispetto alle campagne e proprio da questa osservazione si ipotizzò che in qualche modo questa malattia fosse collegata alla mancanza di luce solare e di vita all’aria aperta. In seguito, la capacità di prevenire o curare questa condizione venne associata anche ad alcuni alimenti, come i pesci grassi o le uova (1).
Furono molti i contributi dal mondo della scienza che concorsero all’identificazione della vitamina D: dai lavori di McCollum e Davis a partire dal 1913 sull’olio di fegato di merluzzo, fino alle scoperte di Mellanby con esperimenti condotti sui suoi cani;  intorno al 1940 proprio McCollum arrivò a definire questo fattore, strettamente collegato con il rachitismo, con il termine di Vitamina D (2).

Quanti tipi di Vitamina D?

Come già osservato dagli scienziati nel 1900, il fattore “Vitamina D” è strettamente connesso sia con l’esposizione solare che al consumo di alcuni alimenti come i pesci grassi. Proprio questa peculiarità ha complicato il percorso che ha portato alla sua definitiva scoperta e tuttora può generare qualche confusione. Infatti, con il termine generico di Vitamina D vengono raggruppate una serie di molecole liposolubili, tra cui solo alcune, in seguito a trasformazioni chimiche, presentano effettiva attività biologica: la vitamina D3, chiamata Colecalciferolo e sintetizzata dagli organismi animali, la vitamina D2, conosciuta anche con il termine di Ergocalciferolo, di origine vegetale, e il 25-idrossi-colecalciferolo presente in minima parte in alcuni alimenti.

Se nell’uomo la vitamina D2 può essere introdotta grazie ad alcuni vegetali, come i funghi, la vitamina D3 viene prevalentemente sintetizzata ex-novo in seguito ad esposizione alla luce del sole, oppure può essere assunta attraverso alcuni alimenti di origine animale (3).

Dalla sintesi allo stoccaggio: il lungo viaggio della Vitamina D cutanea.

Nel corpo umano la sintesi della Vitamina D3 promossa dall’esposizione solare, in condizioni di ottimali, va a coprire circa l’80% del fabbisogno giornaliero.

Questo è un processo in più passaggi che inizia negli strati basali dell’epidermide dove una molecola che deriva dal colesterolo, il 7-deidrocolesterolo, subisce la prima modificazione ad opera della luce solare. Il composto che si forma viene indicato con il termine Vitamina D3 (o Colecalciferolo) e, una volta sintetizzato, viene trasportato nel sangue e successivamente immagazzinato a livello del tessuto adiposo, grazie proprio alla sua natura lipidica (4).

La quota di Colecalciferolo che viene liberata dal tessuto adiposo è ancora inerte e per diventare attiva deve essere coinvolta in altre due razioni: trasportata al fegato, viene trasformata in 25-idrossivitamina D3 (25-OH-D3 o 25-idrossi-colecalciferolo), la forma circolante nel sangue, che viene monitorata per valutare lo stato nutrizionale del paziente.

La 25-OH-Vitamina D3 è però ancora una forma inerte e grazie ad una proteina di trasporto raggiunge poi i reni per subire la terza ed ultima reazione, un’altra idrossilazione, da cui si forma la molecola biologicamente attiva, la 1,25-diidrossivitamina D3 (1,25(OH)2D3 ), indicata anche con il termine Calcitriolo.

La Vitamina D presente negli alimenti.

La vitamina D, sia essa D3 che D2, contenuta negli alimenti rappresenta sempre la forma inattiva e durante il processo digestivo viene rapidamente assorbita a livello del duodeno e del digiuno con meccanismi analoghi a quelli utilizzati per tutti i lipidi.

Anche in questo caso, la Vitamina D alimentare viene immagazzinata negli adipociti del tessuto adiposo, da cui viene liberata in piccole quantità, per essere poi trasformata da fegato e reni nella forma attiva 1,25-diidrossi vitamina D3 (1-4).

Poiché sono pochi gli alimenti che contengono vitamina D, la maggior parte della Vitamina presente nell’organismo è di origine endogena, ossia sintetizzata nell’epidermide.

L’esposizione al sole rappresenta quindi il sistema migliore per raggiungere i livelli desiderabili di Vitamina D.

Quali sono gli alimenti più ricchi di Vitamina D?

Quantità significative di Vitamina D sono presenti nei seguenti alimenti, ed sono espresse come μg/100g (5):

Alimentoμg di Vitamina D /100g di alimento
Olio di fegato di Merluzzo210
Aringa30
Salmone in salamoia17
Tonno16,3
Acciughe e Alici11
Uovo di gallina (tuorlo)5
Vongole4
Sgombro2,9
Funghi (chiodini, shitake, gallinacci)2,1
Uovo di gallina intero1,7
Latte intero1

Riferimenti scientifici

  1. DeLuca HF. Overview of general physiologic features and functions of vitamin D. Am J Clin Nutr. 2004 Dec;80(6 Suppl):1689S-96S. doi: 10.1093/ajcn/80.6.1689S. PMID: 15585789.
  2. Lips P. Vitamin D physiology. Prog Biophys Mol Biol. 2006 Sep;92(1):4-8. doi: 10.1016/j.pbiomolbio.2006.02.016. Epub 2006 Feb 28. PMID: 16563471.
  3. Carlberg C. Nutrigenomics of Vitamin D. Nutrients. 2019 Mar 21;11(3):676. doi: 10.3390/nu11030676. PMID: 30901909; PMCID: PMC6470874.
  4. Borel P. et al. Vitamin D bioavailability: state of the art. Crit Rev Food Sci Nutr. 2015;55(9):1193-205. doi: 10.1080/10408398.2012.688897. PMID: 24915331.
  5. http://www.bda-ieo.it/wordpress/?page_id=96
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